La storia di
Joshua a buon ragione fa parte di quei primi tempi in cui tutto ci sembrava
epico e pionieristico.
Credo che fosse la fine del 1998 quando Fr
Maurizio mi disse che mi avrebbe accompagnato a vedere un caso terribile in una
capanna vicina al villaggio di Giaki.
Rammento che ero
convalescente da uno di quegli attacchi malarici che nei miei primi anni d’Africa,
mi stroncavano completamente: avevo assunto amodiaquina, poi fansidar e quindi
chinino, ma la mia “goccia spessa” era sempre positiva per alta densità di
malaria. Disperato, mi ero quindi affidato alla dose terapeutica di Lariam (5
compresse nell’arco di 24 ore): il test per il plasmodio si era in effetti
negativizzato, ma gli effetti collaterali erano tremendi (capogiro fortissimo
da non reggermi in piedi ed insonnia persistente). Avevo chiesto a Maurizio di
guidare lui, ed anche scendendo dall’autovettura avevo rischiato più volte di
cadere perchè avevo la sensazione che tutto attorno a me girasse.
La scena che ci
attendeva era incredibile: la casa era poverissima, il padre non c’era (e, come
ebbi in seguito occasione di comprendere meglio, non c’era quasi mai, in quanto
dedito all’alcoolismo). A tirare avanti la baracca era la mamma, e l’attività
principale era il commercio di banane. Vivevano in effetti in un bellissimo
bananeto.
Joshua non era in
casa come mi sarei aspettato, ma nella stalla con la mucca.
Gli portavano
qualcosa da mangiare, ma non lo volevano toccare perchè lo pensavano vittima di
qualche malocchio o spirito maligno. Proprio a motivo di tale credenza, Joshua
e tutta la sua famiglia erano oggetto di ostracismo da parte dei vicini di
casa.
Con Fr Maurizio
siamo entrati in quella stalla ed abbiamo visto un bambino di circa 8 anni che
giaceva nei propri escrementi sulla stessa paglia calpestata anche dall’unica
mucca posseduta dalla famiglia.
Ero ancora nuovo
a Chaaria e certe cose forse mi sconvolgevano di più di oggi.
Non potevo
credere a quel che vedevo: un padre che annegava il proprio dolore nell’alcool
disinteressandosi della famiglia, ed una madre troppo spaventata da credenze e
tabù locali per trovare il coraggio di toccare il proprio figlioletto ammalato.
Di botto avevo chiesto
a Maurizio di portare il bimbo a Chaaria, almeno per ripulirlo ed iniziare a
pensare ad una possibile soluzione.
La mamma
acconsentì e ci seguì al dispensario, che non distava più di 4 chilometri dalla
loro abitazione. Arrivati in missione
abbiamo raccolto un po’ di storia ed abbiamo visitato Joshua con attenzione.
In cuor mio
speravo in un ascesso dentario, per cui avremmo potuto fare qualcosa.
L’analisi del
caso però escludeva la cosa in modo assoluto: la massa era durissima ed era
cresciuta nell’arco di alcuni mesi. La madre diceva che il volume pareva incrementare
giorno dopo giorno. I denti di Joshua poi erano tutti mobili e traballanti.
Ero ancora fresco
di studi a Londra ed il quadro clinico mi portò subito a pensare ad una
possibile diagnosi di linfoma di Burkitt, endemico in Africa sia in persone immunodepresse
che in pazienti immunocompetenti.
A quei tempi non
avevamo alcuna possibilità diagnostica in quel campo: avevamo a disposizione un
emoglobinometro a rifrazione, ma non potevamo eseguire neppure l’emocromo (per
cui non sapevamo nulla dei globuli bianchi). L’ecografo non lo avevamo ancora
comprato. Neppure eravamo in grado di fare test HIV o biopsie.
Fu Maurizio a
dire che lui aveva dei soldi mandati dalla sua parrocchia e che li avrebbe
investiti volentieri nel caso in questione, se lo avessimo riferito al Kenyatta
National Hospital.
La decisione fu
unanime ed immediata.
Fu Fr Lorenzo a
prendersi carico dei trasporti avanti e indietro da Nairobi: Joshua fu visitato
e ricoverato; la diagnosi di linfoma di Burkitt in paziente HIV negativo fu confermata
dalla struttura universitaria; subito dopo iniziarono i cicli di chemioterapia
mensile.
Lorenzo accompagnava
Josha e la mamma per i ricoveri al Kenyatta. Noi a Chaaria facevamo invece il
controllo dell’emoglobina due settimane dopo la chemio, e trasfondevamo se ce
n’era bisogno.
Come descritto
ampiamente in letteratura, anche nel caso di Josha la risposta clinica alla
chemioterapia fu stupefacente, e la massa scomparì completamente dopo nove
cicli a Nairobi. La madre era assolutamente incredula e pensava ad un miracolo.
D’accordo con gli
oncologi della capitale, fui io a fare il “follow up” di Joshua, e cinque anni
dopo la fine della chemio lo abbiamo dichiarato libero da recidive.
La madre è sempre
stata fedele e collaborante per le
visite di controllo, mentre il padre non è venuto a Chaaria neppure una volta e
non ci ha mai detto grazie.
Pure la mamma,
che grazie ce lo ha detto, non ha comunque fatto lo sforzo di portarci neppure
un casco di banane come atto di riconoscenza: come sempre, la ricompensa
dobbiamo aspettarcela da Dio e non dagli uomini.
Facendo i conti,
i soldi che abbiamo speso per Joshua soltanto avrebbero pouto guarire almeno
mille persone affette da malaria complicata. Ma quella fu la nostra scelta ed è
stato importante spendere quei soldi in tal modo, visto i risultati terapeutici
che abbiamo ottenuto.
Ho rivisto Joshua
recentemente. Era in ospedale per altri motivi e non sarebbe neppure venuto a salutarmi, ma
qualcuno del personale più anziano lo ha riconosciuto e gli ha chiesto di
passare a salutarmi. Ho quindi avuto la possibilità di visitarlo e di rendermi
conto che anche ora è libero da recidive... penso dunque che sia proprio
guarito.
Dopo essermi
congedato da lui, ho quindi continuato a visitare altri pazienti.
Circa un’ora più
tardi ho però sentito un altercare concitato nella sala d’attesa: era sparita la
bicicletta di un paziente.
Io non ho avuto
molti dubbi perchè avevo sentito della piega che la vita di Joshua aveva preso:
ho chiesto all’autista di andare a casa del giovane e verificare se per caso
avesse preso lui la bici.
Joshua era in
cortile con la bici ancora tra le mani; alla richiesta del perchè l’avesse rubata,
lui candidamente ha risposto: “era un prestito” e l’ha restituita a Joseph
senza fare resistenza.
Certamente
abbiamo salvato Joshua da un tumore maligno; non so però se siamo riuscito a
salvarlo da se stesso, ora che è un uomo di oltre 20 anni.
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